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Channel: Franco Nembrini – il blog di Costanza Miriano
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Un venerdì a Milano

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di Costanza Miriano

Venerdì scorso è stata una giornata molto istruttiva, per me. Innanzitutto ho imparato che alle sette di mattina il mondo già esiste: sono andata a correre a quell’ora indecente in cui di solito sono sprofondata in coma vigile, e ho scoperto che i fondali della città sono già srotolati, i marciapiedi disposti al loro posto, e la gente addirittura già in movimento. Chi l’avrebbe mai detto.

Poi ho preso un treno, e sono andata a Milano, attraversando mezza Italia coperta dalla neve, che bello. Ero invitata a Nova Milanese, la sera, e così avevo incastrato altri due impegni, prima. Nel primo pomeriggio sono andata a La7, ospite di Parodi Live (fornita di vestito di seta e scarpe col tacco, l’ideale sulla neve), nel tardo in una parrocchia (anfibio e giacchina di lana cotta).

Ecco cosa ho imparato. La televisione rappresenta la parte peggiore del paese. Per bucare lo schermo, infatti, bisogna esprimere pochi semplici concetti, alzando la voce e reiterando i concetti, semplificando e usando i colori forti, unico modo per ottenere l’attenzione. Come si sa, il mezzo è il messaggio, e la televisione è un mezzo veloce e semplice.

Ero invitata per parlare dei miei libri, solo che a commentare le mie affermazioni c’erano: Luca Giurato, Alba Parietti, una soubrette cubana, un giornalista de La7 perfetto rappresentante del giornalista collettivo (copyright Il Foglio), un opinionista fisso della trasmissione che non conosco e che mi sembrava avere accenti lievemente femminei, Giusi Ferrè (giornalista di moda) e tre donne straniere (cinese, tedesca e greca) chiamate a dare un respiro internazionale alla conversazione. Devo dire che mi hanno anche lasciato la parola, ma proprio il messaggio non passava, perché si parlavano due lingue diverse, e – a parte Giusi Ferrè, alla quale devo dare atto di onestà intellettuale – non c’era il tentativo di tradurre quello che cercavo di dire. Sottomissione è stato tradotto, anche grazie ai servizi preparati prima, come sinonimo di prestazioni da geisha (la Parietti: “io faccio la geisha, ma se l’altro se ne vuole approfittare gli salto alla giugulare”), o come accettazione supina di ogni nefandezza (un altro servizio ha proposto la classifica delle sottomesse, sciorinando l’elenco delle famose che avevano perdonato il marito fedifrago), o ancora  come rinuncia a ogni progetto di realizzazione personale. Insomma, tutto sempre e solo nella logica profondamente del mondo: chi comanda, chi sta sopra o sotto, chi ci guadagna e chi ci perde. Va be’. Cosa imparata: la logica del mondo è un’altra, e le parole in questi casi non servono.

Ma negli altri due appuntamenti, come nelle decine e decine che ho avuto ormai in tutta Italia, ho imparato invece che ci sono davvero un numero incredibile di persone belle, brave, che silenziosamente fanno bene il loro lavoro, stanno bene al loro posto, sono generose, accoglienti, disposte ad ascoltare, spesso, quasi sempre, più sagge e più in gamba di me. Una comunione di santi dell’ordinario, persone appassionate e appassionanti, persone con cui è facile fare amicizia, perché nel nome di Gesù bastano pochi gesti, a volte un’occhiata.La-copertina-del-volume-di-Franco-Nembrini

Persone come Clementina, Daniela, Simone, che mi hanno accompagnata generosamente, solo per amicizia, sacrificando il tempo del riposo e della famiglia (e della cena, nel caso specifico) e affrontando neve e ghiaccio. Persone come Franco Nembrini, che ha fatto non so quanti chilometri, sempre sotto la neve, solo per poterci scambiare un abbraccio; padre, insegnante, educatore, autore del bellissimo Di padre e in figlio che sto leggendo, scoprendo (è colpa mia, non lo conoscevo ancora, ma lui è famoso) un fratello maggiore, un intelligente, appassionato, grande educatore. Uno che seduce, parlando di Dante, platee di ragazzi in un’età in cui di solito l’unica cosa che attira la loro attenzione è What’s app (a proposito, ma che è?).

Persone come gli amici di Alleanza Cattolica di Cassina de’ Pecchi, che hanno radunato un bel po’ di gente sotto la bufera di neve, e che fanno da anni un grande lavoro formativo per conoscere e difendere la dottrina sociale della Chiesa. Non fanno rumore, non vanno in tv come la Parietti, ma sono uomini e donne di livello eccezionale.

Persone come quelle dell’Associazione Felicita Merati, una donna – come Chiara Corbella, come Gianna Beretta – morta di tumore per non essersi curata durante la gravidanza, per non dover abortire: i suoi concittadini lavorano per difendere la cultura della vita, e ci mettono un’energia incredibile.

Persone come quelle che incontro ovunque vado, persone che prendono le carte che la provvidenza dà loro in mano, e giocano la loro partita meglio che possono, senza imbrogliare, mettendocela tutta.

Io sono contenta di vivere in questo tempo. Vedo il disastro generale, ma vedo i semi di una rinascita culturale e spirituale di cui, come in tante stagioni della storia, ci faremo carico noi cattolici, con il nostro piccolo esercito, sparuto, silenzioso forse, ma armato di cuore e intelligenza e soprattutto di preghiera. E chissà che anche questa crisi non venga per aiutarci: perché fino a che si ha la pancia piena non si ha tempo né voglia di alzarsi, e andare ad aprire a Colui che sta alla porta e bussa.



Alla ricerca del padre perduto

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Dialogo sulla possibilità di un’educazione oggi.

Estratto del resoconto dell’incontro del 21 febbraio 2013 organizzato dal Centro Culturale di Roma . Il resoconto completo è disponibile QUI

Partecipano: Costanza Miriano, giornalista Tg3  - Franco Nembrini, rettore dell’Istituto “La Traccia” (Bg)  - Antonio Polito, editorialista Corriere della Sera –  Modera: Roberto Fontolan

con Polito e Nembrini

Fontolan: Benvenuti a questo nostro incontro “Alla ricerca del padre perduto. Dialogo sulla possibilità di un’educazione oggi”.  [...] Uno spunto che è stato una motivazione per noi, piccola realtà del Centro Culturale di Roma, era proprio costituito in partenza dal libro di Antonio Polito [...] che ha pubblicato da poco –Contro i papà – che sta avendo un grande successo, mi pare che sia la quarta o quinta edizione, per cui vuol dire che si tratta di un tema forte che ha colto un punto importante della vicenda sociale e culturale del nostro Paese. [...] Allora, chiedo subito ad Antonio Polito di dirci: un editorialista politico, studioso dei fenomeni della politica, analista di quello che succede nel nostro Paese, di chi ci governa, di chi ci ha governato, di quanto sbaglia chi ci ha governato, perché si è interessato di paternità? E perché ha affrontato in modo così radicale questo tema nel so libro: “Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli ”?

Polito: Allora ti ringrazio, ringrazio dell’invito e della presentazione. Perché? Perché secondo me noi sbagliamo nel pensare – e lo pensiamo tutti in fondo al nostro cuore – che i problemi collettivi siano del tutto esterni alla nostra sfera familiare e privata. Che i problemi politici appartengano ai politici, che i problemi del Paese appartengano a chi ci governa. Ovviamente c’è una parte importante che i governanti possono fare per tenere il Paese in condizioni migliori, però è fuor di dubbio che molte delle questioni e delle caratteristiche, anche delle qualità, ma anche dei difetti, dei vizi, che tengono il Paese fermo, che creano ingiustizie, sofferenza, disagio sociale, siano frutto dei nostri comportamenti, problemi culturali, non solo problemi politici, sociali o economici. Spesso sono problemi culturali. E’ uscito nel libro il lavoro di un sociologo americano che ha affrontato il problema della società americana di oggi, vedendola da questo punto di vista: due città dove si svolgevano, si creavano comportamenti diversi che avevano un’influenza diretta sull’economia. Non so, il numero di madri single, il numero di famiglie che si rompevano, il numero di ragazzi che abbandonavano l’obbligo scolastico, questi sono fatti che avevano un’importanza sull’andamento della società e anche dell’economia molto più forte di quanto noi pensiamo. Se è vero che l’economia può cambiare i valori, è ancora più vero che sono i valori che possono cambiare l’economia. E che noi siamo quello che siamo, perché siamo chi siamo, e non soltanto per quello che fa qualcun altro, da qualche altra parte al governo.

Quindi, in realtà – poi tenterò anche di fare qualche esempio del perché penso che sia così – ho usato la questione dei padri, della paternità, come una grande metafora, una metafora per affrontare i problemi di cui mi occupo regolarmente, che sono i problemi politici, sociali della società italiana, convinto che dobbiamo cominciare a prenderli da qualche filo diverso da quello solito del pensare che se vincono i nostri le cose vanno a posto, se cambia, se se ne va quello che sta al governo e viene un altro… Insomma non è così, molti fenomeni siamo noi, siamo noi anche nei nostri comportamenti, innanzitutto nel nocciolo della società che è la famiglia, a determinarli e a crearli.

Antonio Polito

Antonio Polito

[...] Del resto, l’idea di usare la paternità come metafora, non è solo mia, è frequentissima nella letteratura e anche nella nostra vita sociale, e di recente l’ha usata in maniera sorprendentemente efficace per me Benedetto XVI, che ha dedicato il suo discorso dell’Udienza Generale del 30 gennaio, proprio al tema della paternità, trovando una metafora che io ho trovato particolarmente sorprendente. Lui dice, siccome nel Credo Dio è Padre, la crisi della società contemporanea si riverbera anche sulla fede, perché ha un effetto anche sulla credibilità di questa metafora che il Credo propone. E lui dice «non è sempre facile parlare oggi di paternità, soprattutto nel mondo occidentale, le famiglie disgregate, gli impegni di lavoro sempre più assorbenti, l’invasione distraente dei mass-media all’interno del viver quotidiano, sono alcuni tra i molti fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli. La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritario ed inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a Lui con fiducia ».

E’ una cosa effettivamente su cui riflettere, perché quello che sembra un problema sociale, cioè la difficoltà oggi dei padri che non sanno bene cosa essere – io di questo nel libro mi occupo molto – può avere conseguenze culturali così profonde e così radicali. E altrettanto interessante è, dal punto di vista della metafora che usa il Santo Padre, come lui vede il rapporto tra amore e libertà, cioè quello che io nel libro definisco la differenza – un po’ più da psicologia spicciola – tra il “padre accuditivi” e il “padre etico”. Io dico che tutto sommato la crisi è questa: il padre etico. Siamo sempre meno padri etici – che si prendono sempre meno la responsabilità di un confronto con i figli sui temi della libertà, della responsabilità, dei doveri e così via – e sempre più padri accuditivi. E lui la trasforma così: « la Paternità di Dio è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto (…) Noi vorremmo certamente che i nostri padri avessero questa onnipotenza divina secondo il nostro schema mentale e i nostri desideri, un Dio onnipotente, un padre onnipotente che risolva i problemi, che intervenga per evitarci le difficoltà, che vinca le potenze avverse, che cambi il corso degli eventi e annulli il dolore.(..) E invece la sua onnipotenza è diversa, non si esprime come forza automatica e arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna. (..) In realtà Dio creando creature libere, dando libertà ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il suo potere nella nostra libertà; è un atteggiamento apparentemente debole fatto di pazienza, mitezza e amore, ma dimostra che il vero modo di essere padre è puntare sulla libertà (..) ».

Ora, è esattamente il tema, detto in maniera molto più profonda e alta, che io propongo nel libro, nel senso che io accuso i padri di oggi di essere diventanti una specie di sindacalisti dei loro figli. Presumendo di proteggerli, perché poi l’esito complessivo di questa situazione è disastroso, perché oggi non è che abbiamo creato proprio una società a misura dei nostri figli, i nostri figli lo sanno e sono anche abbastanza arrabbiati per questo. Ma questo malinteso senso di protezione, di cura, di difesa, ha ridotto quel confronto, quella creazione di un modello, anche di un modello contro il quale scontrarsi, contro il quale combattere, perché fa parte dell’emancipazione dei giovani confrontarsi con un modello, e l’ha ridotto a un fratello, a un compagno, spesso di giochi, a un papà – io faccio questa differenza, secondo me anche lessicale, tra l’espressione padre e tutti questi papà, papino, papone, papetto, papuccio, papi, che sono diffuse ormai nella lingua e che corrispondono ormai a questa degradazione della figura del padre alla figura di un compagno di avventure e di giochi. Non chiedo, non sollevo –qualcuno l’ha letto, secondo me, superficialmente – un appello per un ritorno alla severità, al superamento di tutto quello che di positivo c’è stato nell’evoluzione del rapporto padri-figli e genitori-figli in generale negli ultimi anni, diciamo dalla grande rivolta contro l’autorità che fu rappresentata dal ‘68. Io non credo che si possano ripristinare condizioni del passato.  Quando io sollecito alla riscoperta della parola “correzione”, che secondo me è una parola completamente negletta, non mi riferisco alle cosiddette “punizioni corporali” [...]. Io, per esempio, non ho mai toccato i miei figli, però non voglio aprire questa discussione. Non voglio che si torni a quello, non lo credo giusto, non lo farei mai, non è un appello alla severità, ma è un appello alla riscoperta del valore della responsabilità, nel senso che i nostri figli non possono convincersi che tutto è loro dovuto, che tutto sarà facile, che tutto sarà automatico, e che c’è un’autorità che gli farà strada. Non è così. Non è così da un punto di vista sociale. Ci sono altre aree del mondo dove i giovani oggi hanno una disponibilità al sacrificio e all’impegno imparagonabile a quella che hanno i nostri figli, e paragonabile forse a quella che avevano i nostri padri, alla generazione precedente, perché forse noi alla fine nel boom economico siamo stati un po’ i cinesi di allora. E quindi non è neanche conveniente, perderanno la competizione, non è vero che il loro futuro sarà come quello nostro, generazione del baby boom, noi nati dopo la guerra che abbiamo conosciuto il benessere più elevato della storia dell’umanità, noi siamo stati la generazione più benestante della storia dell’umanità. Questa condizione felice non si tramanderà automaticamente ai nostri figli, ed è bene che cominciamo a dircelo e a ragionare su quello che stiamo sbagliando.

Fontolan: Prima di passare la parola a Costanza, io ho una domanda da fare subito ad Antonio Polito: un capitolo del suo libro – il secondo – I bamboccioni siamo noi – mi ha colpito in un punto in cui parla delle tre rivoluzioni che hanno portato alla perdita o all’eclissi del padre. E ce ne è una in particolare che mi ha colpito. La prima è quella del ’68 – l’ha citata prima – la seconda rivoluzione è quella della contraccezione, e una terza rivoluzione è quella del pensiero del ‘900. Mi ha colpito la seconda, perché la trovo un po’ impopolare, come notazione, rispetto alla mentalità generale, e anche un po’ controcorrente rispetto alla storia e alla cultura da cui viene Antonio Polito, che certamente è una storia di impegno politico forte a sinistra, laica. E questo tema della contraccezione detto da lui mi ha colpito perché sembrerebbe una cosa da vetero-cattolici, come tipo di notazione. Mi ha incuriosito, e gli chiederei se può, in pochissime parole, darci uno spunto su questo.

Polito: [...] Per quanto riguarda la contraccezione, qui io vorrei essere chiaro, nel senso che io penso che il reale sia razionale, in linea di massima, quindi una volta scoperta la pillola e scoperta la contraccezione non è che metti il dito nel buco della diga e fermi il mare, e non penso che abbia senso reagire a questi grandi mutamenti col divieto, non ha senso perché oltretutto non ci si riesce, sono cose che hanno cambiato il comportamento, diciamoci la verità, anche del popolo cattolico, il popolo cattolico è una società secolarizzata dell’Occidente, in maniera ormai non modificabile.

Perché se ancora ancora su temi come la vita, la nascita e la morte c’è una resistenza diciamo diffusa, sui temi come la cosiddetta maternità responsabile, la battaglia, per chi l’ha fatta, credo che sia persa. Quindi non contesto il fatto. Però io dico: di fronte al fatto che esiste la contraccezione, esistono questi comportamenti, c’è spazio per il dibattito pubblico di chi ritiene che fare pochi figli sia un errore, sia un errore per la società nel suo complesso, ormai lo riconoscono economisti e demografi. Una delle debolezze maggiori della società italiana è la scarsa natalità, per una serie di ragioni, anche banali e sociali, per esempio tutto il sistema pensionistico salta. Sono venuti a cadere anche dei tabù che c’eravamo costruiti anche fintamente, perché questo è figlio del fatto che le donne lavorano. Anche questo non è vero, perché nei Paesi dove c’è maggiore occupazione femminile, c’è più natalità, ci sono più bambini. Allora c’è lo spazio per dire che è un errore per la società e, a mio modo di vedere, anche per la famiglia, nel senso che un figlio voluto, pianificato, un figlio di cui si decide il momento della nascita in ragione di una serie di ragioni economico-sociali – quando avrò una casa, quando avrò una stanza in più – poi è ovviamente un figlio anche molto più sacralizzato, un figlio di quelli con i quali ci comportiamo da sindacalisti, perché avendolo costruito in modo così accorto e anche impegnativo, da un punto di vista dell’investimento personale, essendo un investimento, affettivo, umano ecc.., come tutti gli investimenti uno li tratta anche con estrema prudenza e ha anche meno quella facilità di comportamento che tutto sommato in una famiglia più numerosa quasi inevitabilmente si crea.[...]

Fontolan: Bene. Allora Costanza Miriano, giornalista del Tg3, autrice di libri che hanno avuto un grandissimo successo. Forse per lei il tema “Alla ricerca del padre perduto”, potremmo tradurlo alla ricerca della famiglia perduta, o dei genitori perduti…

Miriano: [...] Diciamo, per quello che riguarda il tema paterno io ho scritto questo primo libro che si chiama Sposati e sii sottomessa, e mi ero ispirata alla lettera di San Paolo agli Efesini. Nel secondo volevo scrivere il corrispettivo per gli uomini, perché il primo è una raccolta di lettere alle amiche, nelle quali cerco di convincerle a sposarsi, che è un po’ il mio pallino, o a fare figli.  Praticamente per me è sempre la risposta a qualsiasi problema. E nel secondo ho provato a scrivere delle lettere agli uomini, perché anch’io vedo questa carenza paterna, vedo delle scene che credo che chi ha bambini si trovi a notare: padri presi a calci dai bambini all’asilo, che magari fanno i capricci, e i padri che si difendono così, alla bene e meglio (sono cose che noi da bambini non avremmo osato neanche pensare nel più ardito dei sogni), oppure contrattazioni da Mc Donald’s, – ancora un gelato, ancora – .. Insomma, c’è un rapporto praticamente paritario tra figli e genitori, come dicevi tu, sono gli amici con i quali si interagisce quasi alla pari. E quindi volevo scrivere una serie di lettere agli uomini, ma mi sono resa conto che non riuscivo a parlare il linguaggio maschile. Anche perché gli uomini, non so, quelli che c’ho intorno io, parlano poco.

Costanza Miriano

Costanza Miriano

[...]  Quindi in realtà ho scritto di nuovo alle donne. E io penso che molta parte della alterazione della polarità nei ruoli maschili e femminili sia da ricercare nel ruolo femminile nella società. E lo dice anche Ratzinger, che nell’introduzione al libro Nuovo disordine mondiale (di Michel Schooyans) scrive:

«la peculiarità di questa nuova antropologia che dovrebbe costituire la base del nuovo ordine mondiale, diventa palese soprattutto nell’immagine della donna, nell’ideologia del women’s empowerment, nata dalla Conferenza di Pechino e praticamente che si ispira alla teoria del Gender equality, cioè maschio e femmina sono più degli atteggiamenti culturali che biologici e quindi donati da un Padre che ci dota di un bagaglio dal quale non possiamo prescindere, non possiamo sceglierlo a nostro piacimento».

Io credo che, appunto, il cambiamento del ruolo delle donna abbia alterato questa polarità, maschile e femminile, e che stia a noi, o forse perché io sono donna e credo che nella risoluzione dei problemi, ciascuno debba partire dalla propria parte, prima di accusare l’altro.  Quindi ho riflettuto più sulla parte che io posso fare per rendere mio marito più padre.  Innanzitutto mai criticandolo davanti ai figli, soprattutto, e anche imparare a permettere che l’altro sia, che l’uomo abbia il suo modo, il suo stile appunto, il suo modo di fare le cose, proprio perché la donna, come dice San Paolo nella lettera agli Efesini, sulla quale ho ragionato per il mio intero libro, ha questa tendenza a “formattare” gli altri, a fare da educatrice, anche un po’ oltre l’ambito di competenza.

[...] In realtà questa dote femminile è una dote che serve alla donna per accogliere la vita e quindi è una dotazione che noi abbiamo perché siamo programmate per decodificare i feti extra-uterini che sono i bambini nei primi anni di vita, nei quali il cordone è tagliato solo fisicamente, e quindi è una capacità, è una specie di radar sottilissimo che abbiamo, che però non va usato con i quarantenni. E quindi ho cercato di riflettere su questo fatto che la donna deve riprendere il suo ruolo di accoglienza, la donna nei confronti dei bambini deve essere il pavimento, l’accoglienza, mentre il padre deve fare da parete, cioè il muro oltre il quale il bambino non può andare. Però se non c’è un pavimento, neanche la parete regge, quindi penso che uomo e donna, quindi padre e madre, debbano riprendere il proprio ruolo in mano, un ruolo non assolutamente intercambiabile. Poi, ovviamente, lavorando entrambi può succedere che un padre cambi un pannolino o scaldi – con grande sforzo di concentrazione, no scherzo – una minestrina, però ovviamente non è su questo aspetto spicciolo che si gioca la differenza, ovviamente sappiamo fare anche le stesse cose, non proprio allo stesso modo però..  Non ci si può completamente intercambiare su tutti i fronti, cioè a casa e al lavoro. E qui veniamo all’aspetto dell’ingresso della donna nel mondo del lavoro, secondo me un po’ controverso. Cioè ogni volta che si parla di conciliazione, si parla di permettere alle donne di lasciare di più i loro figli, quindi asili nido, oppure incentivi alle aziende che scelgono di assumere le donne, quote rosa, soffitti di cristallo da infrangere, donne nei consigli di amministrazione. Mentre io credo che le donne che vogliono fare le madri, anche, quindi non mettere solo il lavoro al primo posto, anzi, mettere prima la famiglia, debbano combattere perché il lavoro sia più a misura di donna, non perché le donne possano entrare più massicciamente nel mondo del lavoro o ai vertici, perché è oggettivamente impossibile che una donna lavori come un uomo. Adesso non so se questa sia una cosa molto popolare da dire, però secondo me, se una donna – torniamo al discorso della contraccezione sul quale poi magari vorrei tornare – se una donna si sposa a un’età biologicamente normale e la coppia decide di aprirsi alla generazione della vita, non in modo così sconsiderato, però con una disponibilità, un’accoglienza, è chiaro che di figli ne vengano più di uno. E quando i figli sono qualcuno in più è praticamente impossibile fare un lavoro molto impegnativo e combattere con gli uomini sul loro campo di battaglia e poi tornare a casa ed essere madri serie, decenti, non dico proprio brave. Perché è proprio un dato di fatto oggettivo, la giornata ha solo 24 ore, e nonostante il blog del Corriere della 27esima ora, sono sempre 24. Insomma, sono dei dati di fatto oggettivi e finché la natura, insomma finché non modifichiamo anche questo, siamo noi che teniamo il bambino nella pancia, siamo noi che lo allattiamo, siamo noi che siamo più dotate di questo famoso radar di cui parlavo prima che serve ad aiutare i bambini nei primi anni di vita. Perché la madre insegna a vivere, mentre il padre deve insegnare a morire, quello che mette i no e i paletti.

Quindi secondo me la riflessione sui padri non può prescindere da quella sulle madri.  D’altra parte io credo, come Edith Stein e Giovanni Paolo II, che hanno tutti riflettuto sul genio femminile, che Dio affidi l’umanità alla donna e che l’uomo viene molto definito dallo sguardo femminile che riceve su di sé. Cioè una donna che permette all’uomo di essere quello che è, di esprimere i suoi talenti, che smette di criticare, di voler formattare, di volersi imporre, di voler controllare, che permette all’uomo di essere, di essere come è, di essere quello che va fuori a fecondare il mondo, perché lo stile maschile è uno stile molto più proiettato verso l’esterno.  E credo che invece una donna che sappia fare la sua parte in casa possa rimettere molto le cose a posto, possa dare anche il coraggio ai padri di fare il proprio ruolo, perché un padre che si vede confermato, che si vede approvato, che si vede sostenuto, un padre che sa che può essere fermo e anche tenersi dentro la frustrazione del figlio, sa che lo può fare perché dall’altra parte c’è una madre che accoglie e che consola, magari anche di nascosto, ogni tanto. Io lo sperimento, dicevo prima che sono una madre un po’ mollacciona, e vedo che mio marito è più capace di me di tenersi dentro anche la sofferenza dei figli, di dire no, di sopportare i capricci, i musi, perché nell’immagine, diciamo l’immagine del Padre di cui noi siamo a immagine e somiglianza, noi sappiamo che il no è per il vero bene del figlio e quindi sa guardare oltre, ha il coraggio di assumersi il peso della libertà del figlio, di mandarlo fuori dal nido, di stare in panchina quando il figlio comincia a fare i primi passi fuori.  Noi abbiamo un figlio adolescente che comincia a uscire da solo, io mi travestirei da albero per seguirlo, invece è mio marito che decide quando va, quando torna, e io cerco di confermarlo in questa sua capacità di stare in panchina, e di non oppormi. Infatti, in casa per i miei figli mio marito è una specie di divinità, mentre io, l’altro giorno mi hanno detto che “sono un po’ una pippa”, perché questo padre fantastico che sa tutto, aggiusta tutto, fa vedere i film, propone le cose, fa i programmi, così … Però a me hanno detto che io so ridere, che rido molto, non è poco, vero? E io l’ho preso come un complimento. No, perché in realtà ci confermiamo a vicenda. Io lo so che posso rilassarmi su certi fronti, perché so che è una parte che fa lui.

Fontolan: Franco, abbiamo già diversi elementi, perché qui è stato toccato, sia da Antonio Polito che da Costanza Miriano, qualcosa di molto vertiginoso su questo tema della paternità.  Citando Benedetto XVI vediamo dietro come la eclisse di un’altra Paternità o la crisi di un’altra Paternità. Ma intanto sentiamo cosa pensi tu su questo tema, Alla ricerca del padre perduto.

Nembrini: Buonasera. Sono veramente a disagio, perché, dette le cose che sono state dette, di quel rilievo e di quella profondità, da Antonio sulla figura del padre, da Costanza sulla figura della madre… e adesso? E adesso, forse mi è rimasto di parlare dei figli, o a nome dei figli, dando voce ai figli. Potrebbe essere veramente complementare a quello che abbiamo sentito.  Io sono rimasto colpitissimo dalle osservazioni fatte fin qui, a cui non ho molto da aggiungere se non provare a lanciare un grido di allarme, o se volete – attraverso alcuni aneddoti e alcune immagini – provare a condividere con voi quello che mi sembra il vissuto di questa generazione di nostri figli; forte da una parte del fatto di avere avuto quattro figli, dall’altra e forte della convivenza quotidiana – da 36 anni che insegno – con ragazzi dell’età più meno delle superiori: quindi adolescenti – anche se non mi piace il termine – ne incontro veramente tanti, e allora mi pare di poter fare due o tre osservazioni che ci interpellano in modo molto forte.  Quando si è trattato di pubblicare questo libro – che in realtà non ho mai scritto, diciamolo una volta per tutte, nel senso che qualche amico ha ritenuto che certe conversazioni che avevo fatto in diverse occasioni avessero qualche valore, ha preso le registrazioni, le ha pazientemente sbobinate e ne è nato un libro (che devo ancora leggere. Ma dicono che ne valga la pena, che sia molto carino…) – e l’editore mi ha chiesto come lo volessi intitolare, io proposi il titolo che mi sembrava più render giustizia del contenuto: avrei voluto intitolarlo “Ho visto educare”. Perché, e lo dico senza falsa modestia, non è che ho qualcosa da dire sull’educazione, non è che ho teorie sull’educazione; ho visto tante cose. Certamente il fatto di essere quarto di dieci figli, di due genitori molto semplici, santi credo, che hanno tirato su dieci figli in condizioni economiche relativamente difficili – quegli anni di cui parlava Antonio prima –ha voluto dire molto: dal punto di vista dell’educazione ho visto molto e ho provato a raccontarlo; e allora ho suggerito quel titolo. L’editore però ha detto: “no, non si capisce, è misterioso” (a me sembrava chiarissimo, “ho visto educare”, più chiaro di così…). Allora ne ho proposto un altro che è quello che mi viene su più dalle viscere: “Lasciateli stare”. Sottotitolo: “Dedicato a tutte le mamme d’Italia”. Naturalmente l’editore ha rifiutato anche questo, dicendo che non ne avrebbero venduto una copia; io ho provato a spiegare che l’avrebbero comprato tutti i figli da regalare alle mamme, e quindi l’operazione sarebbe stata commercialmente straordinaria, ma naturalmente non mi hanno creduto (però prima o poi un libro con quel titolo lo scrivo…). Così è rimasto “Di padre in figlio”.

Franco Nembrini

Franco Nembrini

Ma perché questa mia insistenza a parlar male delle madri? Perché è vero, come scrive Antonio, come ha detto Costanza, che oggi c’è obiettivamente una scomparsa del padre, sto dicendo una cosa perfino ovvia ormai. Non so se, come ha accennato Antonio, sia più una mancanza di esperienza di paternità vissuta che ha in qualche modo gettato un’ombra perfino sulla concezione religiosa del Padre Eterno; oppure, a rovescio, due secoli che hanno fatto una guerra culturale, scientifica, metodica, sistematica, all’idea di Dio non potevano che sortire questo risultato: un indebolimento della figura paterna spaventoso. Che ha per contrappeso un debordare, invece, della figura materna. Perché se non c’è il muro e il pavimento va avanti all’infinito comincia a muoversi e hai la sensazione di sprofondare: se non c’è il muro, come diceva Costanza, non c’è più neanche il pavimento. E quando si pretende di far camminare uno senza muri e senza pavimenti, voi capite che è un’impresa quasi impossibile.  Provo a spiegarmi con un paio di aneddoti, veri, che mi sono capitati davvero. Avevo sedici anni o poco più quando fui chiamato all’oratorio del mio paese a dare una mano – nascevano i primi centri estivi – ai ragazzi che facevano i compiti per le vacanze, prima di giocare al pallone; mi danno una quarta elementare, stanno facendo un po’ di analisi grammaticale e di analisi logica, e i bambini dovevano analizzare la frase: “Mia mamma mi vuole bene”. Non, badate bene, “Mia mamma fa la spesa”, no, no, “Mia mamma mi vuole bene”. Un genio, tra questi bambini, scrisse: “Mia: aggettivo ossessivo”. Allora nella mia ingenuità, nel mio candore di sedicenne, pensai a un errore di grammatica; ora so bene, invece, di che cosa stiamo parlando. Oppure una volta che un ragazzo mi ha detto: “Franco, sai che cos’è un golf?” “Sì, penso di sì, un indumento” “Ma, come lo definiresti?” Ho provato a definirlo, lui mi ha corretto, mi ha detto: “No, il golf è quell’indumento che i figli devono mettere quando le mamme hanno freddo”. E se ne potrebbero raccontare di più; ma dove voglio arrivare? Mi sembra che alla fine la questione decisiva sia un’osservazione che ha fatto Benedetto XVI nel 2007 in un intervento a un convegno della Diocesi di Roma sull’educazione, dove dice che i figli vengono tutti al mondo “giusti”. Vengono al mondo – perdonate la battuta – fatti “da Dio”, fatti bene.  È ovvio che so bene di tutte le differenze storiche, culturali, l’influsso della televisione, di internet eccetera; ma nella sua categoricità, quest’affermazione, secondo me, è verissima: i figli vengono al mondo fatti da Dio. Vengono al mondo con un desiderio buono, vengono al mondo con una tensione alla felicità, a che le cose possano essere amate, possano essere incontrate, possano essere conosciute. Fanno bene il loro mestiere; e il loro mestiere è guardare. I nostri figli – vien da dire anche i nostri alunni – ci guardano, sempre. A due anni, forse anzi già nel grembo materno, e poi a due anni, e poi a cinque, e poi a otto, e poi quando escono di casa, e poi quando cominciano i primi tormentoni dell’adolescenza, i nostri figli ci guardano sempre. L’emergenza educativa è questa: che adulti vedono quando guardano?  L’emergenza educativa siamo noi, l’emergenza educativa sono padri e madri che non hanno ragioni di speranza sufficiente da comunicare ai loro figli.

Tutto quel che cerco semplicemente di dire, forte di un’esperienza che ho visto tante, è questo: forse in modo un po’ paradossale, un po’ rozzo, il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione. Perché quando tu hai il problema dell’educazione vuol dire che fai quella cosa che diceva prima Costanza: cerchi di cambiare l’altro. Cercar di cambiare l’altro è una violenza, perché l’altro è libero, e può cambiare solo a condizione di ricevere una testimonianza grande. Deve incontrare tanto di quel bene, così tanta bellezza, da esserne trascinato: questa è l’educazione. Io ringrazierò sempre mio padre di essersi occupato della sua santità, non della mia. Perché la sua santità mi ha reso curioso, e perciò disposto a obbedire, a seguire, ad ascoltare, ad accettare consigli. Era la verità di ciò che viveva che mi convinceva, non il suo disperato tentativo di rendermi diverso da ciò che ero. Perché mi avrebbe disturbato, esattamente come disturba tutti i nostri figli, e tutti i nostri alunni.

Dice il Papa: “L’educazione è perciò una testimonianza”. Una testimonianza, una scommessa terribile, drammatica sulla libertà dei nostri figli. Nella sua radice, questo è il comandamento dell’educazione. Che ci si occupi della propria vita in modo così intenso, così grande, da poter offrire una testimonianza convincente ai propri figli.  E questo fa fuori anche tutto il problema delle regole, delle contrattazioni, dei paletti, del “dove lo fermo?” [...] Ed è veramente una cosa diversa: poter scommettere sulla libertà è davvero la grande sfida.  Certo, è un rischio, e non a caso don Giussani ha intitolato il suo libro fondamentale sull’educazione “Il rischio educativo”, perché l’educazione ha la natura di rischio; ma, insisto, mi sembra che il compito dell’educatore sia proprio quello di occuparsi della santità propria – poi è chiaro che con la coda dell’occhio guarda in propri figli, i propri alunni, i figli degli amici; ma deve sentire una domanda terribile, una sfida tremenda su di sé.  A me – lo racconto sempre – è sembrato di poter intuire questa cosa una domenica pomeriggio, mentre correggevo i temi, e a un certo punto noto – era un tavolo grande – mio figlio che mi stava osservando all’angolo del tavolo. Era alto esattamente come il tavolo, e io vedevo solo gli occhi, questi occhi che mi fissavano, e fui colpitissimo da una considerazione che non mi ha più abbandonato. Quel figlio in quel momento non mi stava chiedendo da mangiare, da bere, da vestire, da giocare; in quel momento mi guardava e basta. Ma – me lo ricordo come fosse oggi – mi attraversò l’idea forte, persino dolorosa, che quello sguardo di mio figlio in fondo contenesse una domanda, che potrebbe essere formulata così: “Papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo. Dammi una ragione di speranza. Guarda, su tutto il resto posso chiudere un occhio. Se c’è poco da mangiare, mangeremo di più domani, se c’è poco da vestire, se mi dai uno scapaccione…” –anche la questione delle sberle, io le ho date, invece, devo riconoscere, avendo avuto quattro figli maschi… I nostri figli ci perdonano tutto, i nostri figli ci perdonano molto di più di quanto noi perdoniamo loro; ma non ci possono perdonare questo: un’assenza di ragioni per la vita, una ragione che tenga su la vita, l’essere venuti al mondo. “Papà assicurami che valeva la pena essere venuti al mondo”: io non sono più riuscito ad entrare in classe senza sentire trenta paia d’occhi che, consapevoli o no, mi facevano questa domanda, perché tutti siamo costituiti da questa domanda, e tutti ci muoviamo dalle nostre case e veniamo a una riunione come questa con la segreta speranza di essere accompagnati e aiutati a stare al mondo, cioè a trovare una ragione sufficiente per portare lietamente la fatica del vivere, il dolore che il vivere comporta. Perché se è così, non dico che è facile – l’ho detto prima, educare non è mai facile -, ma semplice sì. Se è una testimonianza è semplice. Dio continua a fidarsi di noi nel mettere al mondo i figli e nel farceli educare perché ci chiede in fondo, per essere dei buoni genitori, solo questa suprema lealtà di fronte a noi stessi e di fronte alle cose. Qui la libertà è una roba seria.  La parabola del figliol prodigo resta per me la grande parabola dell’educazione, e ho finito.

2013-03-25_110053Quel padre – è Dio – aveva due figli, e uno dei due se ne va – il più piccolo, proprio quello per il quale forse provava più tenerezza. Ed ecco la questione. Se il figlio ti dice “Caro papà, a me di tutti i tuoi suggerimenti, consigli, prediche, non prediche, non me ne importa più niente; vado a buttar via la vita”, come fanno tanti, tu che cosa fai? Perché normalmente abbiamo due tentazioni. Quella antica, autoritaria: chiudo porte e finestre a chiave, tu di qua non esci perché di fuori il mondo è cattivo [...]. L’altra soluzione, quella oggi in voga, quella che Antonio oggi descrive in modo mirabile nel suo libro, quella moderna, è quella del papà che dice: “Vai via? Vengo anch’io con te! Vendiamo la casa.  Ma sì, son stato giovane anch’io, batti il cinque figlio mio!”, e vanno entrambi. Ma così quando il figlio, accorgendosi dello sbaglio, accorgendosi di una solitudine, soffrendo di una violenza – perché questa è una generazione dove i figli soffrono di più; non ho mai visto una generazione soffrire così nel diventar grande, mai -, soffrendo di quello che gli manca, si ravvede e dice “Ho sbagliato tutto, ma nella casa di mio padre perfino i servi hanno di che mangiare, tornerò!”, e si alza tutto convinto, contento, rinsavito, si toglie di dosso la melma, pronto a partire, gli scappa l’occhio: il padre è lì con lui, è lì con i porci, non c’è un padre da cui tornare, non c’è una casa dove tornare. Questo lo uccide, lo uccide perché non c’è speranza.  Quello che non ci possono perdonare i figli – e gli alunni – è questo: non c’è una casa dove tornare, e perciò non c’è una possibilità di sbagliare, e perciò di provarsi; alla fine non c’è una possibilità di perdono. Come dice Gli orfani di Pascoli, la grande fotografia per me della generazione dei nostri figli, «non c’è più chi si compiace di noi, non c’è più chi ci perdoni».  Perché il padre è quello che resta a garantire la casa, cioè a garantire la possibilità del ritorno, cioè garantisce ai figli la possibilità di sbagliare, e garantisce la possibilità del ritorno. Perché alla fine l’educazione è questo grande atto di misericordia: “figlio mio, io darei la vita per te, adesso; non ‘se cambi’, no: io darei la vita per te così come sei, adesso”. L’educazione comincia in questo punto esatto.

I nostri figli invece soffrono di un rapporto conflittuale, durissimo, con le madri, avente per oggetto e per contenzioso naturalmente la scuola, i voti, la pagella, un contenzioso continuo dove non vanno mai bene a nessuno. Non vanno bene al padre, non vanno bene alla madre, non vanno bene a scuola, non vanno bene a nessuno. Un ragazzo mi ha scritto: “Franco, io ho bisogno solo di una cosa: un posto che non abbia schifo e non abbia paura di quello che sono”.  Questa è una casa, questi sono un padre e una madre, questa dovrebbe essere una scuola, questo dovrebbe essere un luogo di lavoro – perché anche sul lavoro, ahimè, non si educa più – questo è quello che i nostri figli ci chiedono. Mi sembra che sia la grande sfida da raccogliere.

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Il resoconto completo dell’incontro è disponibile in pdf sul sito del Centro Culturale di Roma


Dopo aver scoperto Dante, l’unica cosa che mi manca è rivedere le stelle

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Nei giorni in cui a Firenze, al festival del quotidiano Repubblica, arrivava Dan Brown, il quotidiano Italia Oggi proponeva  un dialogo con un professore di lettere e preside di una scuola bergamasca, Franco Nembrini. Nembrini, certamente non nembrini-francopotrà vantare le vendite in libreria dell’autore americano, né sarà forse mai salutato dal sindaco Matteo Renzi con un tweet, né Tom Hanks farà forse mai un film a partire dai suoi scritti, tuttavia quel che ha da dire e raccontare su Dante Alighieri è mille volte più interessante delle scombiccherate ricostruzioni infernali dell’autore statunitense. E quando va a parlare in una scuola o in un qualche teatro, ad ascoltarlo ci sono sempre giovani che ne escono entusiasti e «con una proposta e un itinerario». Che non si esaurisce con una lettura estiva sotto l’ombrellone.

Ecco di seguito l’intervista.

Le risposte di Dante nella crisi (Goffredo Pistelli)

«Mi sono trovato a leggere Dante in Toscana, con questo orribile accento bergamasco, vergognandomi come un cane». Franco Nembrini, 58 anni, professore di lettere e preside in una scuola della Bergamasca, è protagonista di una vicenda singolare: gira l’Italia leggendo e spiegando Dante, e ovunque ci sono centinaia di persone, sale e teatri pieni, per sentirlo.

Ma è un fenomeno molto underground, perché il professore, cattolico e per giunta ciellino, dà della Commedia una lettura cristiana, cioè del punto di vista dell’autore. Eppure Roberto Benigni, quando qualche anno fa cominciò le sue celebrate letture pubbliche, s’è ispirato ai primi libretti di Nembrini sul sommo poeta. Tanto che gli telefonò un giorno e il professore pensò a lungo a uno scherzo: «Non ho tempo da perdere», gli disse. Il preside, volto scolpito con l’accetta come i lombardi di quelle zone, barba folta, è di fatto una personalità a Trescore Balneario, 9mila anime, non lontano da Bergamo, in Val Cavallina, cittadina che oggi celebra solo Bortolo Mutti, allenatore stimato in serie A.

Professore che ha da dire Dante all’Italia e agli italiani di oggi?
Mi viene da dire che ha molto di più da dire adesso che al suo tempo

E perché?
Era un tempo profondamente cristiano. Un tempo che esprimeva una sensibilità diffusa e condivisa, seppure a livelli diversi, e che si traduceva in una cultura oggi dimenticata, lasciata alle spalle, a volte combattuta. Dante però, molti secoli dopo, è una proposta e un itinerario, un viaggio che l’uomo può fare nella profondità di se stesso.

Appunto, ma lei oggi insegna o va in giro a spiegare un Dante cristiano a ragazzi che cristiani non sono più.
Tanto più sono lontani da Dante e il suo tempo, tanto più ne sono stupiti, glielo garantisco. A cominciare dai primi canti. Quando leggo loro: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura» non si può non riconoscere che quell’autore, di secoli e secoli fa, esprime il nostro stesso sconcerto quando non capiamo perché siamo al mondo, a che cosa serve il tempo e per cosa sono fatte le cose.

E come lo spiega a un sedicenne della profonda Bergamasca o a un ragazzino delle periferie romane?
È semplice, gli chiedo se ciò che è così magistralmente descritto non sia lo stesso sentimento che li assale, la domenica sera, quando, per dirla con Leopardi, la festa ha tradito le promesse del sabato, o quando devono dire «mi sono innamorato», a una ragazza, senza vergognarsi, o spiegare a un amico che è tale. La «selva oscura», lo smarrimento, è un’esperienza del nostro quotidiano.

E Dante cosa dice?
Che ogni uomo, anche oggi, può vivere all’altezza del proprio desiderio. Anzi lo può vedere compiersi, e che le scorciatoie hanno tentato pure lui, ma poi ha seguito Virgilio che gli dice: «A te convien tenere un altro viaggio».

Professore ma questa è appunto una visione religiosa della vita.
Quella di Dante, appunto. Il punto è che chi propone questo poeta e questo poema

…si immedesimi, dice?
Esattamente, altrimenti scatta il meccanismo opposto, i ragazzi fuggono. E poi i nostri colleghi dicono che nell’era di Internet, non è più possibile spiegare Cacciaguida o il Conte Ugolino. Bestialità.

E quindi chi ha studiato Dante sui tomi di Natalino Sapegno, che era un laico, avrà fatto fatica…
Certamente, avrà trovato la Divina Commedia insopportabile, ma sa, Sapegno è quello che parlò delle «ubbie giovanili» del Leopoardi, lasciamo perdere. Le garantisco che, oggi, quelle terzine parlano al cuore di ogni uomo, anche non religioso, non educato a niente. Le faccio un esempio.

Prego.
Sono stato di recente in Ucraina, a Kharkov, dove un professore di filosofia mi ha inviato a tenere una lezione ai suoi allievi in università.

In italiano?
Certo, c’era un interprete. Ed erano persone ineducate al cristianesimo, tanto che ho dovuto spiegare cosa fossero Inferno, Purgatorio, Paradiso. Lì ho conosciuto un giovane, malato, affetto da nanismo, storia triste: ha vissuto in internati per anni. Prima dell’incontro, mi aveva detto, pensi un po’, di essere nato alla bellezza quando era divento cieco, perché nell’istituto dove l’avevano spostato era un continuo suonare bellissima musica.

Terribile, ma Dante?
La lezione era intitolata «Dante e le stelle», e ho spiegato che in certe cantiche, la parola stella indica la possibilità che le nostre domande di uomini abbiano nesso con il Cielo appunto, con l’Infinito. Salutandomi quel ragazzo, piangente, alla mia domanda su di cosa potesse aver bisogno, mi ha risposto: «Dopo aver scoperto Dante, l’unica cosa che mi manca è rivedere le stelle». Le garantisco: quel poema parla al cuore dell’uomo di oggi, di ogni uomo.

Torno sul punto. È una lettura cristiana, non glielo hanno mai contestato?
Si figuri. Mi è capitato perfino, in alcuni collegi dei docenti, che esimi colleghi mi abbiano rimproverato di dare «una lettura eccessivamente religiosa della Divina commedia». E dicevamo proprio così «divina», senza trovarlo incongruente rispetto all’obiezione. Come se quell’aggettivo, che dette Boccaccio, fosse lì per caso.

E lei che rispondeva?
Che non era colpa mia se Dante era cristiano. Ma è chiaro che chi abbia una sensibilità religiosa è facilitato, l’immedesimazione richiesta è più facile. Però guardi che grandi laici si sono convertiti grazie a Dante, penso a Charles Singleton, che lasciò la casa, l’America, per venire a Firenze. Altri laici ne hanno assunto il patrimonio, senza contestare niente. Penso alla scrivania dedicata all’Alighieri che Giovanni Pascoli teneva, insieme a quella sulla letteratura latina e all’altra di letteratura italiana. Penso a Eugenio Montale, laicissimo, che diceva: «In fondo, dopo Dante, non è stato scritto niente altro di significativo».

Dunque anche degli spiriti laici possono.
Certo, se lo fanno con lealtà, con una domanda seria sulle grandi questioni della vita, se sono insomma, in questo senso, autenticamente religiosi, cioè aperti.

Torniamo all’oggi e alla scuola. Ma il fenomeno Benigni, che ha fatto tornare il sommo poeta di moda, non ha aiutato una riscoperta?
Benigni ha un merito storico, gli darei il Nobel per la letteratura, che magari è stato dato ad altri con manica larga. Lui ha disseppellito Dante, lo ha sottratto, lo ha liberato dal chiuso delle accademie, cenacoli di intellettuali, lo ha restituito al popolo come avrebbe voluto lui, Dante. Si immagini che nel 1373 i fiorentini fecero una petizione.

A proposito di cosa?
Chiedevano pubbliche lettura del poema «el dante» attraverso il quale sentivano possibile «di fuggire il vizio e perseguire la virtù» e domandavano «un corso per non grammatici», cioè accessibile a tutti. Detto questo

Detto questo?
Mi sembra che Benigni ed io abbiamo due compiti e due modi diversi. Lui è uno strepitoso recitatore, il mio compito è quello dell’educatore, d’essere attento all’aspetto da cogliere, alla possibilità di un dialogo con una proposta umana, esistenziale, cristiana, che Dante rappresenta

Serve a noi, in mezzo a una crisi profonda, economica ma anche esistenziale, rileggere oggi quelle terzine?
Quel che Dante fa lo fa a questo scopo: «In pro del mondo che mal vive» o, come dice altrove, per «uscire da stato di miseria e condurre a stato di felicità». Fu una crisi vera anche quella che visse il suo tempo e lui indicò una possibilità di salvezza. I suoi erano richiami, sollecitazioni non semplicemente a rimettere in ordine le cose ma a ridargli ordine. Ché le cose «hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa somigliante». Non sottovaluta il mondo, la carne, la vita, ma indica il modo per rendere tutto ciò proficuo, bello, pieno di magnanimità. Non c’è canto che non riconduca questo.

E la politica, professore, può essere utile che si rilegga la Divina Commedia? Ieri il sindaco di Verona, Flavio Tosi, paragonava Umberto Bossi al conte Ugolino. Matteo Renzi, anni fa, scese in strada con gli studenti a leggere le terzine.
Dante continuamente richiama le dimensioni dell’umano che sono la preoccupazione del proprio destino, il problema dell’amare, la propria donna e anche gli altri, cioè il Bene comune. La stessa scansione della Commedia è fatta così: il II, III e IV canto riguardano il destino, il V, con Paolo e Francesca, il problema affettivo ma il VI canto è il primo politico. Sì, certo, i nostri politici ne avrebbero da leggere di cose. Ma così anche i preti e gli insegnanti.

Professore ma oggi, che non si crede più, non le pare tutto un po’ difficile?
È la cosa più affascinante che ci sia. Siamo tornati alle condizioni dei tempi apostolici. L’altro ieri una studentessa di vent’anni ma chiesto il significato della parola «seminarista». A Bergamo, capisce? Cosa c’è di più avvincente di raccontare, con Dante, che cosa è accaduto 2000 anni fa?

fonte: Tempi.it 


L’avventura della scuola

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foto di Manuela Gambazza per Credere

foto di Manuela Gambazza per Credere

intervista a Franco Nembrini di Costanza Miriano

Franco Nembrini è il professore dei sogni, quello a cui tutti i genitori vorrebbero affidare i propri figli. Chiavi in mano. Allora sì che si potrebbero smettere di preoccuparsi dei voti e del successo: saprebbero che c’è qualcuno che sa mostrare loro la bellezza della vita come avventura, e del sapere come impresa che serve a questo viaggio. Non per niente è uno che riempie le sale di giovani parlando loro di Dante, altro che Dan Brown. Noi di Credere abbiamo scelto lui, insegnante di storia e italiano, rettore del centro scolastico La Traccia di Bergamo, per aiutarci a vivere anche l’inizio dell’anno scolastico con lo sguardo rivolto nella direzione giusta.

Professor Nembrini, gira in rete una foto con la didascalia “primo giorno di scuola”: quattro ragazzini imbronciati, e una mamma che salta di gioia. Finalmente libera, per qualche ora al giorno. Io non sono se sono un caso preoccupante – vietato chiedere un parere ai miei figli in merito – ma per me è esattamente il contrario. In estate sono contentissima di godermi i miei figli, e in più sono esentata dalla tortura quotidiana, la lotta per i compiti: vorrei sempre che fossero di più, e fatti meglio. Mio marito dice che non me ne dovrei occupare. Ha ragione lui, come al solito?Primo-giorno-di-scuola

Sì, almeno in parte ha ragione lui. Sono convinto che uno dei problemi più gravi dei ragazzi di oggi è che non hanno spazi per mettersi alla prova, per rischiare, per sbagliare. Mi sembra che i nostri atteggiamenti verso di loro siano dominati da due sentimenti, la paura e la sfiducia: abbiamo paura che possa succedere loro chissà cosa, e li teniamo sempre sotto controllo (pensa a che assillo sono diventati i telefonini…); e pensiamo che non siano capaci di fare da sé, e abbiano sempre bisogno della nostra assistenza. E così non si stimano, non si vogliono bene e tutto intorno li conferma in questa non stima. Poi ci stupiamo se crescono dei ragazzi i cui atteggiamenti davanti alla vita sono la paura e la sfiducia!

Quando sono andata a ritirare i libri di prima del mio primo figlio ho pensato: va be’, questi sono i libri con i giochi di prescolarizzazione, poi ci diranno dove comprare i libri veri. Mi sembra che oggi l’obiettivo della scuola sia soprattutto di essere simpatica ai bambini, di non metterli davanti a sfide impegnative, di non farli interrogare. Che ne pensi?

Ahimè, è vero. Dobbiamo avere il coraggio di affermare che non c’è altro scopo dell’educazione che questo: accompagnare i nostri figli a stare davanti alle circostanze come la grande occasione data a ciascuno per scoprire la propria grandezza, la grandezza del destino buono cui siamo chiamati. Ma proprio questo ci vede tutti, giovani e adulti, di una fragilità sconcertanti. Siamo perennemente in fuga dalle circostanze, dalla fatica, dal dolore, dalle ferite che la vita ci offre. Fino a pensare che il nostro compito di educatori sia quello di evitare ai nostri figli queste ferite. Così impediamo loro di crescere e di diventare grandi.

In terza media a mio figlio hanno fatto una lezione sul preservativo, scelta che è stata approvata da tutti i genitori della classe, tranne noi: l’idea è “non importa cosa fate, basta che non vi creiate problemi, cioè malattie o gravidanze”. E anche la scuola viene vissuta un po’ così: i buoni voti a scuola sono per i genitori il certificato che possono stare tranquilli. Se c’è una bella pagella tutto il resto non conta. Ma la scuola ci dice la verità sul ragazzo?

No. Anzi, bisogna anche qui fare chiarezza e avere il coraggio di dire che la scuola (e perciò il buon risultato scolastico) non è la meta della vita, ma semplicemente la strada. L’ideale della vita, per noi come per i nostri figli, è quello di essere felici, di conoscere la verità cioè il senso delle cose, di poter amare davvero sé e gli altri, di sentire utile il proprio tempo e la propria fatica. Come ha magnificamente ricordato papa Francesco ai giovani di Piacenza. E questo si realizza in condizioni molto diverse, secondo strade mai uguali per tutti, valorizzando i talenti, le passioni, le capacità proprie di ciascuno dei nostri ragazzi.

Tu entri in contatto con molti genitori. Dal tuo punto di osservazione ti sembra che ci sia il rischio che i genitori attribuiscano alla riuscita scolastica un valore diverso da quello che ha? Magari una conferma del loro valore come genitori, una polizza di assicurazione sul successo del figlio, un cordone di sicurezza contro le difficoltà della vita?

Mi sembra che sia una terribile tentazione di noi educatori quella di confondere la strada con la meta, e pensare che il successo a scuola coincida con il compiersi del desiderio. Ma non è così, e i nostri figli lo sanno. Tanto è vero che ci accusano, magari inconsapevolmente, di proporre loro troppo poco. Ecco questa mi sembra essere la scoperta che ho fatto in tutti questi anni vivendo con loro: più la proposta ideale è alta, più il cammino è impegnativo, più diventano capaci di entusiasmo e di grandi sacrifici. Come mi ha scritto uno studente (non certo brillante dal punto di vista scolastico) dopo un concerto che ha visto suonare insieme lui, i suoi compagni e i suoi insegnanti: “ da questa sera so che l’Italia non andrà in rovina. Stasera sul palco ero un uomo. Molto più che in cento notti di alcool e di canne. Ora so di poter dare il mio contributo. Lo schifo che mi circonda morirà ai miei piedi. Non mi tirerò indietro.”

fonte CREDERE

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L’orso siberiano

E chi non è mai innamorato?

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di Paolo Pugni

Ci sono libri con i quali dialoghi per la vita: perché dentro hanno quella saggezza che ha sempre da spiegarti il senso delle cose e dell’esistenza. Ci sono saggi che prendono questi libri e te le rendono ancora più amici al punto che poi confondi le parole di uno e dell’altro, i visi degli autori. Perché chi scrive si divide in due categorie: chi racconta con una forza da strapparti il male di dosso e chi spiega per lasciarti la speranza che ce la puoi fare.

Franco Nembrini appartiene alla seconda categoria.

Ma la colpa è di Costanza che a inizio agosto ha raccontato di come si sia fatta convincere dall’amicizia a leggere l’interpretazione che del Quinto canto dell’Inferno fa appunto Nembrini nel suo Dante poeta del desiderio volume primo. Così l’ho letto anche io: ed è stato subito fuoco. Non quello dell’Ade, ma della passione.

Perché se Dante impari ad amarlo dopo gli studi, che lì fanno di tutto per fartelo odiare –non tutti, ovvio: se avessi avuto Nembrini come docente, impossibile siamo coetanei, l’avrei amato fin dal liceo- ci vuole qualcuno che si sieda accanto a te e ti ci porti per mano dentro le cose. Facendoti le domande giuste per dare le migliori risposte. Come ad esempio come mai un amore grande e struggente come quello di Paolo e Francesca, che fa palpitare tutti –“perché Paolo e Francesca io me li ricordo bene”- e resta scritto addosso, sia conficcato nell’inferno.

Già perché col metro del giudizio di oggi non lo si capisce proprio: costretta ad un matrimonio politico con il brutto e cattivo dei fratelli, si innamora di quello bello e delicato, lotta contro la passione, ma poi si sa come vanno le cose, al cuore non si comanda, e poi che colpa avevano, e che cosa restava loro da fare, e se si amavano perché dirsi di no e insomma il vero e unico colpevole è quello che è finito a Caina, che a vita li spense.Dante-poeta-del-desiderio-INFERNO-260x389

E no, dice Dante, perché l’amore è una cosa seria, mica questione di sensi. La colpa di questi due, come degli altri che lì stanno infissi, trascinati da venti tempestosi, è d’aver sottomesso la ragione alla passione. Di essersi fermati alla sensualità senza risalire al quel segno che ogni cosa porta iscritti dentro: Nembrini cita un insospettabile Montale “tutte le immagini portano scritto:” più in là “!”.

Dentro ogni desiderio c’è quell’inquietudine che trova riposo solo in Dio, ma a patto di lasciarlo fluire fino alla sorgente: ogni immagine ne porta il segno, ogni amore ne è riverbero se è guidato dalla ragione e non dalla passione. La tentazione diabolica sta tutta nello stop: invece che risalire dalla creatura al Creatore, onorando e rispettando la prima, finisce per consumare la creatura per dimenticare il Creatore e usando la prima per i tuoi egoismi. Non c’è scampo per chi nasconde le sue voglie e le sue debolezze dentro un “che cosa ci potevo fare?” alibi dei due volte codardi: per aver tradito il proprio fine e per non avere il coraggio di chiarirne motivazione.

Nembrini prende Dante e te lo squaderna davanti per farti capire che cosa è l’amore: andrebbe preso e imposto a tutti i fidanzati, a tutti gli innamorati, a tutte le coppie. In modo semplice: al mio segnale, studiate l’inferno.

***

FRANCO NEMBRINI A ROMA

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La forza delle donne….

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003-beatrice-and-dante-theredlist“Perché nel rapporto tra l’uomo e la donna c’è qualcosa di misterioso che assegna alla donna un potere enorme di cambiare l’altro. Qualcuno magari non sarà d’accordo, ma dopo averlo scoperto nella Divina Commedia, l’ho verificato infinite volte nella vita, nella mia e in quella di tutte le persone che conosco. Mi spiego con un’immagine un po’ paradossale, ma credo che renda l’idea.

Quando mi chiamano a parlare ai corsi fidanzati esordisco così: «Sentite, per quel che mi riguarda gli uomini possono andare tutti al bar a giocare a biliardo, perché se le cose che dirò stasera le capiranno le vostre future spose, siete salvi; ma se non le capiscono le vostre donne ci sarà poco da fare». Perché la donna – non so perché – ha questo potere misterioso di cambiare un uomo in un modo molto più decisiva.”

cit Franco Nembrini

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Papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo

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Continuano le anteprime de La Croce – Quotidiano che sarà in edicola e online dal 13 gennaio 2015. QUI tutte le informazioni per abbonarsi

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di Franco Nembrini  per La Croce

“ai miei genitori, Dario e Clementina
che mi hanno dato la vita, e con essa il sentimento
della sua grandezza e positività
a Clementina Mazzoleni, mia professoressa di italiano
cui devo la passione
per la letteratura e per l’insegnamento
a don Luigi Giussani,
che a quel sentimento e a quella passione
ha dato la stabilità e la certezza della fede”.

Basterebbe la dedica del mio ultimo libro per il segreto dell’educazione: una serie di incontri con dei maestri che testimoniano la positività della vita.
Comincio da una constatazione elementare: quando veniamo al mondo, quando nasciamo o meglio quando un uomo impatta nella realtà, che cosa succede?
Succede che Dio procura a questo bambino due cose: la realtà che ha intorno e sé stesso.
La realtà questo bambino ha diritto di incontrarla in tutte le sue manifestazioni, tanto che gli esperti dicono che fin dal momento del concepimento, anche prima della nascita, il feto comincia a costruire questo rapporto con la realtà circostante.
Più complessa è la definizione di sé stesso, perché nell’uomo il sé stesso coincide con la corrispondenza dell’essere con il Creatore. Questa corrispondenza si percepisce attraverso il desiderio di bene, il desiderio di significato, esigenza di verità.

Con questa premessa educazione diventa accompagnare il bambino, mano a mano che diventa grande, a sentire soddisfatto questo desiderio, a rendersene cosciente e a verificarlo tutti i giorni nella vita.
In questo percorso, che avviene per gradi, dobbiamo tener presente alcuni punti di riferimento: primo punto è la lealtà con la tradizione intesa come sorgente della capacità di certezza. L’unica possibilità di certezza per un figlio o per un alunno per crescere consapevole è quella di potersi paragonare lealmente con un adulto che sa dove va, sa che cosa vuole, sa che cosa è per sé la felicità, un adulto che testimonia un bene possibile. I genitori devono essere una proposta vivente di fronte ai propri figli.

Secondo punto, che per certi ambienti può sembrare anacronistico, è l’autorità, cioè l’essenzialità di una proposta che diventa l’esistenzialità di una proposta. Secondo Don Giuissani “la funzione educatrice di una vera autorità si configura come funzione di coerenza ovvero una continuità di richiamo all’impegno verso i valori essenziali e all’impegno della coscienza con essi, cioè un permanente criterio di giudizio su tutta la realtà”.

La funzione dell’adulto è una funzione di coerenza ideale e non di coerenza etica, in altre parole la certezza dei nostri ragazzi, la solidità della loro personalità cresce e si struttura attorno a una sicurezza che gli testimonia l’adulto. In questo senso la paura di sbagliare (sentimento sempre più comune) è pericolosa e forse si potrebbe dire che il grande segreto dell’educazione è proprio questo: non aver paura di sbagliare.

Qui entra in gioco il terzo punto o meglio la parola che sintetizza tutto il processo educativo: Misericordia. L’educazione è una grande misericordia, è un grande continuo perdono, è un continuo abbraccio all’altro prima ancora che cambi. Misericordia vuol dire che io ti amo prima che tu cambi, prima che tu diventi come io vorrei, prima che tu diventi buono e obbediente, prima che tu diventi migliore; prima di tutto io, adulto, affermo il tuo valore qualunque sia l’esito o l’attesa. Affermare il valore prima di ogni pretesa.

In educazione il problema non è la generazione dei figli ma la generazione dei padri, non la generazione dei discepoli, ma quella dei maestri. In altre parole: i figli vengono al mondo nella storia dell’umanità esattamente con lo stesso cuore, con la stessa ragione di sempre, caratterizzati da un insopprimibile voglia di verità, di bene, di bellezza, cioè con il desiderio di essere felici (come noi).

Ma quali padri, quali maestri, quali testimoni hanno di fronte?
La risposta me la sono data un pomeriggio mentre stavo tranquillamente in casa con il mio primo figlio Stefano di 5 anni.
Correggevo i temi come fanno tutti gli insegnanti di italiano ed ero talmente assorto nel mio lavoro che non avevo notato che mio figlio si era avvicinato al mio tavolo e in silenzio mi stava guardando. Non chiedeva nulla di particolare, non aveva bisogno di nulla, solo osservava suo padre a lavoro. Ricordo che quel giorno, nell’incrociare lo sguardo di mio figlio, mi folgorò questa impressione: che quello sguardo, quegli occhi di bambino, contenessero una domanda assolutamente radicale, inevitabile, cui non potevo non rispondere. Era come se guardandomi chiedesse: “Papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo”.

Questa è la domanda dell’educazione che tutti dovremmo portare sempre dentro “quale speranza ti sostiene?” L’educazione comincia quando un adulto intercetta questa domanda e sente il dovere e la responsabilità di una risposta prima di tutto per sé stesso.

L’uomo vale per quello che si vede nel suo agire, è nell’azione che si dimostra il proprio interesse, allora si diventa testimoni nel quotidiano, nell’uso del tempo, dei soldi, della casa, delle energie nella gestione dei rapporti … perché un figlio ti guarda sempre e si può rispondere solo con la vita.

la croce



Accorgersi di crescere

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giovani contestatori

di FrancoNembrini     per cinquepassi.org

Avevo 17 anni, e nonostante l’educazione cristiana ricevuta in casa si insediò in me il dubbio, lo scetticismo, insomma, andai in crisi, una crisi profonda, di cui soffrivo molto. La cosa che mi faceva soffrire maggiormente era che il nulla divorava ciò a cui tenevo di più, divorava mio padre e mia madre, i miei fratelli e i miei amici: era un sentimento di inconsistenza della realtà, mi franava tutto addosso.
Guardavo mia madre lavorare in casa e piangevo perché sentivo che qualcosa me la stava portando via, neanche il bene che le volevo reggeva, perdevano di consistenza tutte le cose che mi erano care.

Guardavo mia madre lavorare in casa e piangevo perché sentivo che qualcosa me la stava portando via, neanche il bene che le volevo reggeva, perdevano di consistenza tutte le cose che mi erano care.
Vissi un anno o due in una crisi molto profonda, abbandonando evidentemente la pratica religiosa, che non mi diceva più niente, sfidando con cattiveria una mia sorella che nel frattempo aveva incontrato Comunione e Liberazione, dicendole: «Dimmi da che cosa ti avrebbe salvato il Salvatore, che cosa ti avrebbe redento il Redentore? Siete come gli altri, anzi peggio degli altri, soffrite e morite come gli altri: dove sta la salvezza? Da cosa ti avrebbe salvato?
Quando esci la domenica dalla Messa cosa puoi dire di te stessa più di quello che posso dire io?».
Non poteva evidentemente dire allora (aveva 19 anni), non poteva rispondermi quello che oggi risponderemmo insieme: che il di più che Gesù ha portato nella vita è semplicemente l’io, l’io, una persona che prima non c’era, una coscienza di sé e delle cose che prima non c’era, e che era quello io stavo cercando, cosa era mancato nell’educazione che avevo ricevuto?

Era successo ai miei genitori quel che sarebbe accaduto al padre di una mia alunna qualche anno dopo. Vi racconto brevemente l’episodio.
Una volta è venuto a trovarmi il papà di una mia alunna (un po’ strana, un po’ fuori di testa), molto preoccupato e addolorato perché la figlia lo faceva tribolare. Suonò il campanello quella sera a casa mia, cenammo insieme, e alla fine, affrontando il problema che gli stava a cuore scoppiò a piangere, si tirò su la manica della camicia facendomi vedere le vene e, quasi urlando disperatamente, mi disse (siccome aveva capito tra me e sua figlia, un po’ di feeling era nato, ci si intendeva, insomma), mi disse, battendosi la mano sul braccio: io la fede ce l’ho nel sangue, ma non la so più dare a nessuno. Può farlo lei? Lei può lo faccia, per carità, perché io ce l’ho nel sangue, ma non la so più comunicare nemmeno a mia figlia».

In quel momento mi è venuta l’idea che il problema della Chiesa fosse il metodo, la strada, che tutta la genialità del contributo che don Giussani offriva alla Chiesa e al mondo era questo: la scoperta che la fede, tornando a essere un avvenimento presente, fosse finalmente dicibile, comunicabile.
Poi ho capito che tutto il dramma di quel genitore era questo:pensava che tra lui e sua figlia ci fosse una generazione di differenza e invece s’erano infilati tra lui e sua figlia cinquecento anni di una cultura che aveva negato tutta la sua tradizione e le cose di cui lui viveva, e che televisione, scuola, (ora bisogna aggiungere anche internet) – dal secondo dopoguerra in poi – avevano infilato tra lui e sua figlia.

Ecco cosa era mancato ai miei genitori e a quel padre: la consapevolezza di questa distanza e il metodo, la strada per superarla. E la si poteva superare solo riproponendo il cristianesimo nella sua elementare radicalità: una presenza viva, capace di illuminare le contraddizioni dell’esistenza in modo convincente. Non la soluzione dei problemi ma un nuovo punto di vista da cui affrontarli, non una teoria contrapposta ad altre teorie, ma, per dirla con Romano Guardini, «l’esperienza di un grande amore nel quale tutto diventa avvenimento nel suo ambito».
È il grande richiamo di Benedetto nel memorabile discorso di Verona alla Chiesa italiana: allargate la ragione, date la modernità per raccogliere tutto il positivo ma anche per denunciare le insufficienze di una cultura nichilista e relativista che si è costruita negli ultimi secoli e che per tanti aspetti si è rivelata nemica dell’uomo.

In quel periodo della mia vita è avvenuto poi l’incontro con don Giussani: folgorante.
Venne a casa mia. La mia povera mamma aveva un dolore e cioè che il primo dei dieci figli, che era stato in seminario, ne era uscito sull’onda della contestazione e aveva non solo abbandonato la pratica religiosa e la Chiesa, ma aveva fondato uno dei primi gruppi extraparlamentari dei nostri paesi, insieme ad altri sette ex-seminaristi.
Don Giussani venne a conoscere i miei genitori: confessò la mia mamma, che credo gli abbia parlato del suo dolore mentre mio fratello non era in casa quel giorno. La settimana dopo da Milano arrivò un pacco di libri per questo mio fratello che lui non aveva conosciuto. E con mio grandissimo stupore il pacco di libri, invece che contenere Bibbie o Vangeli, conteneva Il Capitale di Carlo Marx e altri libri di quel tipo. Fu il giorno in cui ebbi il primo sospetto serio che Dio esistesse, perché solo Dio può fare una cosa così; ho avuto lì l’idea che l’altro nome dell’educazione sia misericordia, sia carità, sia quella cosa per cui Dio ti viene incontro lì dove sei: non ti chiede prima di cambiare, non ti chiede prima di fare qualcosa, è lì dove sei tu, con i tuoi gusti, con i tuoi interessi, col tuo temperamento, con i tuoi peccati.
Vedere Giussani che senza paura, senza venir meno a niente di sé stesso, regalava Carlo Marx a mio fratello perché sapeva che lui era lì, ecco, mi fece venire questa idea: che l’educazione è questa misericordia in atto, per cui Dio ci viene incontro lì dove siamo.

Insomma mi venne il sospetto che quell’uomo avesse a che fare con Dio, perché non mi avrebbe mai chiesto di cambiare prima di volermi bene: mi voleva bene cosi come ero.
È la natura stessa dell’amore. Gratuità assoluta. «In questo sta l’amore: che Dio ci ha amati per primo, mentre eravamo ancora peccatori».
Questa identificazione dell’educazione con la misericordia porta con sé alcune conseguenze che mi sembrano decisive. Innanzi tutto che l’educazione non poggia su tecniche psicologiche pedagogiche o sociologiche. È l’offerta della propria vita alla vita dell’altro. È una proposta di vita esistenzialmente significativa e convincente che ha le sue radici nell’esperienza lieta certa del testimone. Se per educare fossero bastate le parole, dal cielo sarebbero piovuti Vangeli, invece Gesù Cristo è venuto, per essere compagno della nostra povera esistenza.

Se è così, l’azione missionaria del cristiano e della Chiesa non può che consistere in una coraggiosa testimonianza della fede là dove gli uomini vivono, i giovani consumano la loro giovinezza nella famiglia e nella scuola. Non si può più immaginare di svolgere l’azione pastorale in ambiti chiusi, diversi dai luoghi di studio, di lavoro e di divertimento, ma bisognerà ricominciare a incontrare i nostri fratelli uomini là dove essi vivono con i loro interessi, i loro affetti, la loro intelligenza e operosità. Una fede che non si dimostrasse pertinente alla vita reale, che non si mostrasse capace di esaltare l’io, col cuore e l’attesa del singolo, non potrà mai suscitare curiosità e interesse e desiderio di seguire.

Il problema coi figli o con gli alunni non può essere solo quello di farli diventare cristiani, farli pregare e andare in Chiesa. Se ti poni così sentiranno questo come una pretesa da cui difendersi e da cui prendere le distanze.
Tutto il segreto dell’educazione mi pare che sia questo: i tuoi figli ti guardano: quando giocano non giocano mai soltanto, quando provocano o qualsiasi altra cosa facciano in realtà con la coda dell’occhio ti guardano sempre, e che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di educarli.
Lieto e forte non perché perfetto (tanto non lo crederanno mai, e come è patetico e triste il genitore che cerca di nascondere ai figli il proprio male), ma perché sei tu il primo a chiedere e a ottenere giorno dopo giorno di essere perdonato.
La domanda del perdono rende liberi, liberi anche di sbagliare, liberi dall’angoscia della “coerenza ad oltranza” della “correttezza ipocrita” che a lungo andare non regge. Chiedere perdono è perseguire un ideale con le nostre debolezze, questo ci rende sempre tutti figlioli prodighi.

fonte: cinquepassi.org


Un cuore nuovo

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fazi

“Scritto con cristallina semplicità, in un italiano piano e pulito, è il racconto senza pretese di una vita ordinaria, e proprio perché ordinaria capace di costringere il lettore ad un paragone serrato con la propria vita, così che leggendo mi sono ritrovato a commuovermi, ad avere paura, a piangere e a ridere, tanto per la sua storia quanto per la mia. E questo, l’ho imparato negli anni, accade solo davanti a parole che dicono la verità, parole che ti leggono mentre le incontri, parole che ti fanno sobbalzare perché avresti voluto scriverle tu.
Ma ciò che mi ha conquistato è che fin dalle prime pagine, quasi ad intermittenza ma sempre più insistente e più chiara, una luce appare tra le righe, un brillìo di fondo impedisce di disperare, un presentimento di bene è già dentro le ferite e le lacrime della vita di Beatrice adolescente e giovane.
E piano piano ciò che sembrava ordinario si rivela straordinario. Ecco, forse è il segreto di questo racconto: svelare lo straordinario in ciò che viviamo ordinariamente, svelare la Bellezza in ciò che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno.”


Franco Nembrini

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Con una sincerità che sorprende, Beatrice Fazi – la Melina di Un medico in famiglia – racconta il suo incontro con Gesù e la conversione religiosa che l’ha salvata da un profondo stato di disordine emotivo e alimentare, anche a seguito di un aborto praticato a vent’anni.

Beatrice racconta del suo cuore diventato di pietra, incapace di provare sentimenti, e di quel pozzo senza fondo in cui era caduta, tormentata da una fame inestinguibile, fisica e psichica, che non riusciva a saziare in alcun modo.

Dopo un periodo difficile in cui aveva persino iniziato a fare uso di stupefacenti, l’incontro casuale con una compagna di università la riavvicina a Dio.

La catechesi sui Dieci Comandamenti, l’inserimento in una comunità del Cammino Neocatecumenale, un pellegrinaggio a Medjugorje e l’incontro con Pierpaolo, poi diventato suo marito, l’aiuteranno a recuperare un ritmo di vita regolare e un ordine nella quotidianità scandito dalla preghiera.

In questi anni ha stretto legami con gli amici del Rinnovamento nello Spirito Santo, e si ritrova spesso nelle diocesi di tutta Italia per celebrazioni liturgiche e testimonianze. Il Presidente del Rinnovamento, Salvatore Martinez, l’ha soprannominata Catecumena Rinnovata, con il compito di annunciare quella misericordia di Dio che abbraccia tutti coloro che tornano a Lui con cuore sincero.

 


A cento giorni dal giubileo

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Per tutti quelli che ho intervistato il 2 agosto alla fine della Marcia Francescana – marciatori e guastatori – per gli amici del Serafico di Assisi, per i volontari che sfamano i poveri alla Stazione Ostiense, per chi ama Franco Nembrini (strepitoso su peccato e misericordia), per chi vuole vedere che faccia ha uno che è appena stato perdonato senza condizioni: il mio speciale “A cento giorni dal giubileo” andrà in onda su Rai 1 alle 8,15 domenica 30 agosto e su Rai Storia lunedì 31 alle 19.

Costanza


El Dante

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Appuntamento da non perdere con Franco Nembrini in un luogo carico di storia nei 500 anni dalla nascita di San Filippo Neri.Ci parlerà di Dante e della sua Divina Commedia. Mercoledì 23 Settembre alle ore 21.00. A Roma ingresso da Via della Chiesa Nuova,3. Sala Ovale (ex-refettorio Borromini).


El Dante: al via 9 incontri sulla Divina Commedia a Roma con Franco Nembrini

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Scusa Dante, qual è lo scopo della tua vita? Dalla Vita Nova alla Divina Commedia, la genesi di un’opera che parla al cuore dell’uomo Venerdì 9 ottobre alle ore 21, presso il Teatro Orione a Roma, inizia la rassegna denominata El Dante​, nove appuntamenti con Franco Nembrini dedicati alla Divina Commedia in occasione dei 750 anni dalla sua nascita. Di seguito riportiamo un testo liberamente tratto dall’incontro introduttivo tenuto da Nembrini durante il mese di settembre.

Per comprendere a pieno la Divina Commedia bisogna chiedersi seriamente da dove nasce e quali sono le circostanze della sua composizione. Scopriremmo allora che tutto ebbe inizio dalla Vita Nova, l’opera che Dante scrisse da giovane dopo l’incontro con una certa ragazza. Se a quell’epoca fossimo riusciti ad incontrarlo per le strade di Firenze, lo avremmo di certo trovato talmente trafelato che guardandolo di istinto gli avremmo chiesto: «Scusa Dante, ma dove corri? Qual è lo scopo del tuo agitarti, della tua vita? Che senso ha tutta questa fatica? Cosa ti aspetti dal tempo che passa?». Lui senza esitare ci avrebbe risposto: «E’ ovvio che il tempo e la fatica servono a compiere la persona, a fare in modo che la felicità si compia. Siamo nati per essere felici. Io corro dietro alla felicità». A questo punto sarebbe stato inevitabile domandargli: «Ma cos’è la felicità?»; lui dapprima ci avrebbe guardato sbalordito, come a dire: «Possibile che a questo tizio tocca spiegare le cose più semplici!», poi più docilmente avrebbe risposto così: «La felicità ha a che fare con il vero, con il bene e con il bello, cioè con le tre dimensioni dei desiderio.

Noi medievali queste dimensioni le chiamiamo fede, speranza e carità. Ogni uomo desidera conoscere la verità, qualcosa del bene e del male, della gioa e del dolore, del vero e del falso, dell’amore e dell’amicizia. Ma non basta, perché desideriamo anche che la verità conosciuta possa essere praticata, che dia forma ai rapporti, alle cose, alle persone, al mondo intero. Ma non è ancora tutto perché questo bene praticato deve consentirmi di costruire qualcosa di bello, che mi dia la certezza che la mia vita sia in qualche modo utile. Queste tre cose insieme sono la felicità». Osando l’inosabile avremmo infine domandato: «O Alighieri, ma tutta questa roba che racconti tu l’hai trovata?». Allora lo avremmo visto sospirare e superata ormai ogni diffidenza cu avrebbe confidato: «Il primo ricordo che ho risale a quando ero ragazzino, avrò avuto all’incirca nove anni. E’ il ricordo del primo incontro con la “gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice”. Un secondo incontro avvenne nove anni dopo. Lei camminava insieme a due amiche, io incrociai il suo passo e ad un certo punto accadde una cosa pazzesca: Beatrice “volse li occhi verso di me e mi salutò”. Da quel momento sono andato fuori di testa: sento chiaramente che in quella ragazza si condensa tutta l’attesa di bene della mia vita. Guardandola ho questo presentimento: sarà lei la persona che mi renderà beato, pienamente felice. Io la felicità l’ho trovata: è una persona». Qualche anno dopo Beatrice però morì. Subito viene in mente A Silvia di Leopardi: «O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?». Perché natura inganni i tuoi figli, illudendoli che la felicità sia possibile? Che fregatura è la vita se tutto muore, se tutto finisce, se le cose vive ci tradiscono? Possibile che in serbo per noi ci sia solo latragedia? Dante si trova di fronte allo stesso dilemma di Icaro: la vita che appare un labirinto in cui ci si sente persi. Solo che Dante non può fare la fine di Icaro, la vita di Dante non può finire in tragedia: Dante è cristiano, e per un cristiano qualcosa ad un certo punto accade. Accade un fatto, uno si fa presente. Il primo canto dell’Inferno parte proprio da questo labirinto, da questa crisi acuta in cui Dante versa.

Ormai ha trentacinque anni (nel mezzo del cammin di nostra vita), ha una famiglia, ha un incarico politico, è all’apice del suo successo mondano, eppure si ritrova in una selva oscura, si sente finito. E’ questo il momento in cui compare Virgilio, qualcuno cui gridare il proprio bisogno. «Sono venuto a prenderti», gli dirà il vate, «perché l’universo si è mosso per te. Di fronte alla tua pena il cielo si è mobilitato». Questa capacità di Dante di sentire il cielo come una presenza buona, fu ciò che gli permise di dire anche di fronte alla morte di Beatrice: «C’è qualcosa che mi sfugge, qualcosa che non capisco. Nonostante tutto il dolore che provo, la vita come la conosco non può essere una fregatura. Fino a che non capisco perché è successo questo fatto non scriverò più nulla». Così si chiude la sua Vita Nova, l’opera giovanile in cui raccoglie tutte le memorie legate al suo grande amore. Per dieci anni non parlò più. Poi arrivò un giorno in cui disse “ho capito”. Da qui ha inizio la Divina Commedia. Non quindi un viaggio nell’aldilà, ma un racconto scritto in favore di “coloro che mal vivono”, affinché possano entrare pienamente nel viaggio che è la vita. Renato Calvanese L’elenco completo delle date è il seguente: venerdì 9 ottobre 2015, venerdì 6 novembre 2015, lunedì 14 dicembre 2015, venerdì 8 gennaio 2016, lunedì 8 febbraio 2016, venerdì 18 marzo 2016, lunedì 11 aprile 2016, venerdì 13 maggio 2016, giovedì 26 maggio 2015. Tutti gli incontri si terranno alle 21.00 al Teatro Orione, Via Tortona 3, Roma. L’ingresso è libero. Maggiori informazioni qui. Per iscriversi alla newsletter​e ricevere tutti gli aggiornamenti cliccare qui.

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Le date di tutti gli appuntamenti

 

1° incontro. Venerdì 9 ottobre 2015

Inferno. “A te convien tenere altro viaggio”: la selva, Virgilio, gli ignavi.

 

2° incontro. Venerdì 6 novembre 2015

Inferno. “Amor ch’ a nullo amato amar perdona”: Paolo e Francesca.

 

3° incontro. Lunedì 14 dicembre 2015

Inferno. “Ma misi me per l’alto mare aperto”: Ulisse e il conte Ugolino.

 

4° incontro. Venerdì 8 gennaio 2016

Purgatorio. “Libertà va cercando ch’è sì cara”: Catone.

 

5° incontro. Lunedì 8 febbraio 2016

Purgatorio. “Ma la bontà finita ha sì gran braccia”: Manfredi.

 

6° incontro. Venerdì 18 marzo 2016

Purgatorio. “Pianger ti convien per altra spada”: l’incontro con Beatrice.

 

7° incontro. Lunedì 11 aprile 2016

Paradiso. “La gloria di Colui che tutto move”: Piccarda Donati

 

8° incontro. Venerdì 13 maggio 2016

Paradiso. “Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda”: San Pietro.

 

9° incontro. Giovedì 26 maggio 2015

Paradiso. “Tu m’hai di servo tratto a libertate”: epilogo nella gloria.

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El Dante: Paolo e Francesca

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Venerdì 6 novembre alle ore 21 presso il Teatro Orione a Roma, si svolgerà il secondo incontro del ciclo di letture della Divina Commedia denominato El Dante: nove serate guidati da Franco Nembrini alla scoperta della Divina Commedia in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante e delle celebrazioni preparate in tutta Italia.

La serata del 6 novembre sarà intitolata “Amor ch’ a nullo amato amar perdona”, dedicata al famoso canto di Paolo e Francesca, il V dell’Inferno, in cui Dante affronta una delle questioni fondamentali della vita: la questione dell’amore. Insieme al poeta fiorentino proveremo a porci la domanda se si possa veramente amare; se si possa veramente amare come il cuore desidera, così come ciascuno di noi sempre ha sognato e sogna nella vita: se si possa amare davvero, se si possa amare per sempre. La triste vicenda di Paolo e Francesca è divenuta ormai il simbolo di un amore totale, ma se così è perché allora i due amanti sono precipitati all’Inferno? Dante vive tutta la drammaticità di questa domanda: com’è possibile che la cosa più grande che l’uomo può vivere, l’amore di un uomo per una donna e di una donna per un uomo, sia la ragione della morte, della violenza, del sangue, del delitto, e addirittura della morte eterna, dell’Inferno?

La prima sera ha avuto un carattere introduttivo. Questa volta, come d’abitudine, ci confronteremo più diffusamente con il testo di Dante attraverso la lettura dei passaggi più significativi del canto. Ti aspettiamo.

L’incontro inizierà alle ore 21.00 presso il Teatro Orione, situato in via Tortona 3, a pochi passi dalla fermata “Re di Roma” della metro A. Per chi si muove in macchina sarà a disposizione un ampio parcheggio gratuito adiacente al teatro. L’ingresso è a offerta libera.

6  novembre 2015

Orario
Ore 21.00

Dove
Teatro Orione, via Tortona 3, Roma

Ingresso
A offerta libera

Parcheggio
Gratuito. Accesso in via Tortona 7

 


Nel mezzo del cammin

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Dal 7 dicembre alle ore 21.00 su tv2000. Un viaggio nella Divina Commedia, in compagnia di Franco Nembrini.

Papa Francesco propone a tutta la Chiesa un anno di riflessione sulla Misericordia. Ma non si limita a questo: propone un anno giubilare cioè un anno in cui della Misericordia si possa fare esperienza, in cui scoprire che è la Misericordia che tiene le fila della storia, di ciascuno e di tutti, di oggi e di sempre. Proprio come i pellegrini che parteciparono nel 1300 (anno in cui Dante colloca il suo viaggio ultraterreno) al primo grande Giubileo della storia della Chiesa indetto da papa Bonifacio VIII. In trentaquattro serate cercheremo insieme, attraverso le pagine più belle e appassionanti della Divina Commedia, di ripercorrere, sulle tracce di Dante, il cammino che lo ha portato a prendere coscienza del proprio Bisogno e della risposta che Dio ha introdotto nella storia attraverso Gesù. Ma non sarei mai in grado di svolgere questo compito, di commentare passi della Divina Commedia davanti a telecamere in una stanza vuota. Ci sono cose che puoi dire soltanto guardando negli occhi un amico.
12122604_1826969117529532_5327013773777065669_nPer questo chiedo a tutti gli amici che si sono appassionati insieme a me in questi anni alla lettura della Divina Commedia di aiutarmi in questa impresa un po’ folle. In tre periodi diversi, a ottobre, novembre e gennaio registrerò le trentaquattro puntate di questa serie televisiva che abbiamo chiamato “Nel mezzo del cammin”.
Chiunque volesse far parte del pubblico, della “classe” a cui queste brevi lezioni saranno rivolte può iscriversi attraverso questa pagina. A chi partecipa, ovviamente a titolo gratuito, è chiesta solo una grande simpatia per l’opera di Dante e per il tentativo che sto facendo di divulgarla e farla apprezzare. Per questo ringrazio con tutto il cuore fin d’ora chiunque avrà la carità di iscriversi e sacrificare mezza giornata per questo che in tempi così oscuri vorrebbe essere una proposta di speranza e di bene per tutti gli uomini.

 

 

 



L’inferno è la sofferenza di non poter più amare

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Franco Nembrini legge l’inferno dantesco: Ulisse e il Conte Ugolino

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Lunedì 14 dicembre ore 21 al Teatro Orione a Roma, terzo appuntamento del ciclo di letture della Divina Commedia denominato El Dante organizzato in occasione del 750° anniversario della nascita dell’Alighieri. Dopo Paolo e Francesca anche questa volta incontreremo due personaggi indimenticabili dell’inferno dantesco: Ulisse, l’eroe della mitologia greca “che brucia d’ardore a divenir del mondo esperto” e il conte Ugolino, il protagonista di una vicenda terribile capace di muovere a pietà anche un cuore di pietra.

Insieme a Franco Nembrini, professore che da molti anni gira l’Italia leggendo e spiegando Dante a giovani e adulti, proveremo ad interrogare l’opera di Dante e a chiederci perché un uomo tanto grande come Ulisse, così assetato di conoscere il mistero della vita sia finito nel girone degli imbroglioni. Come è possibile che si possa finire all’Inferno per aver desiderato “seguir virtute e canoscenza”? Che vuole dirci Dante? E’ la stessa domanda che dovremo rivolgere al poeta di fronte alla terrificante vicenda del conte Ugolino e dei suoi figli, condannati insieme al padre alla prigionia e ad una fine straziante.

L’incontro inizierà alle ore 21.00 presso il Teatro Orione, situato in via Tortona 3, a pochi passi dalla fermata “Re di Roma” della metro A. Per chi si muove in macchina sarà a disposizione un ampio parcheggio gratuito adiacente al teatro. L’ingresso è ad offerta libera.

 

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El Dante: nella vita si può ricominciare?

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Franco Nembrini legge il primo canto del purgatorio dantesco: Catone
 Venerdì 8 gennaio ore 21 al Teatro Orione, quarto appuntamento del ciclo El Dante. Terminati gli incontri dedicati all’Inferno saliamo a “riveder le stelle” ed entriamo nel Purgatorio dove subito ci imbattiamo in una sorpresa. A guardia del regno in cui si espiano i peccati troviamo un pagano per giunta morto suicida: si tratta di Catone l’Uticense, l’oratore romano vissuto nel I secolo a.c. e strenuo oppositore di Cesare.
Perché ad un personaggio che avremmo pensato di trovare all’Inferno tra i grandi spiriti del Limbo o fra i suicidi del VII cerchio, Dante assegna il compito di custodire l’ingresso del Purgatorio? Questo spiazzamento di fatto introduce la domanda che percorrerà tutta la cantica del Purgatorio, e quindi la vita di ogni uomo: nella vita ci si può perdonare? Si può ricominciare?
L’incontro inizierà alle ore 21.00 presso il Teatro Orione, situato in via Tortona 3, a pochi passi dalla fermata “Re di Roma” della metro A. Per chi si muove in macchina sarà a disposizione un ampio parcheggio gratuito adiacente al teatro. L’ingresso è ad offerta libera.
Ti aspettiamo!

 

 

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Le date degli appuntamenti

Venerdì 8 gennaio 2016

Purgatorio. “Libertà va cercando ch’è sì cara”: Catone.

Lunedì 8 febbraio 2016

Purgatorio. “Ma la bontà ‘nfinita ha sì gran braccia”: Manfredi.

Venerdì 18 marzo 2016

Purgatorio. “Pianger ti convien per altra spada”: l’incontro con Beatrice.

Lunedì 11 aprile 2016

Paradiso. “La gloria di Colui che tutto move”: Piccarda Donati

Venerdì 13 maggio 2016

Paradiso. “Quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda”: San Pietro.

Giovedì 26 maggio 2015

Paradiso. “Tu m’hai di servo tratto a libertate”: epilogo nella gloria.

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Finalmente Beatrice

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Beatrice (1)
Franco Nembrini legge il canto trenta del purgatorio dantesco
 
Venerdì 18 marzo ore 21 al Teatro Orione, sesto appuntamento del ciclo El Dante, per goderci insieme il momento tanto atteso: l’incontro tra Dante e la donna che è stata il motivo e il motore di tutta la sua avventura umana, Beatrice.
L’incontro inizierà alle ore 21.00 presso il Teatro Orione, situato in via Tortona 3, a pochi passi dalla fermata “Re di Roma” della metro A. Per chi si muove in macchina sarà a disposizione un ampio parcheggio gratuito adiacente al teatro. L’ingresso è ad offerta libera.


Ti aspettiamo!


Donde ti venne quella cara gioia?

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Paradiso
Incontro su San Francesco e San Pietro
 
Venerdì 13 maggio ore 21 al Teatro Orione, nuovo appuntamento del ciclo El Dante. FRANCO NEMBRINI ci guiderà all’incontro di due grandi protagonisti della storia cristiana: San Francesco, di cui Dante ascolta il racconto da Tommaso d’Aquino, e San Pietro, che lo sottoporrà ad un vero e proprio esame sulla prima delle virtù teologali, la fede.
L’incontro inizierà alle ore 21.00 presso il Teatro Orione, situato in via Tortona 3, a pochi passi dalla fermata “Re di Roma” della metro A. Per chi si muove in macchina sarà a disposizione un ampio parcheggio gratuito adiacente al teatro. L’ingresso è ad offerta libera.


Ti aspettiamo!

 


El Dante, ultimo incontro

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Mercoledì 25 nella chiesa di Ognissanti in Via Appia Nuova 244 alle 21 sarò insieme a Franco Nembrini che parlerà del Canto XXXIII del paradiso, quello dell’inno alla Vergine e quello in cui un uomo si cimenta con la descrizione del suo incontro faccia a faccia con Dio. Lo ascolterò e poi potrò fargli delle domande. Mi ha detto di non ripassare niente, e di andare ad ascoltare così come sono (perfetto, perché quanto a ignoranza sto messa benissimo, ne posso anche esportare).
Una domanda però già ce l’ho. Se Dante avesse fatto come tutti i cosiddetti misericordiosi contemporanei, quelli che parlano di perdono rifiutando l’idea che ci sia un male e un peccato assoluto, quelli per esempio che hanno canonizzato il padre della legge sull’aborto, come sarebbe stata la Divina Commedia? Ah già è vero, noi siamo medievali, e purtroppo Dante non aveva potuto frequentare corsi di scrittura creativa…

C.M.

 

Mercoledì 25 maggio 2016

Orario
Ore 21.00

Dove
Chiesa di Ognissanti, via Appia Nuova 244, Roma

Ingresso
A offerta libera

Parcheggio
Gratuito. Accesso in via Tortona 7

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